Capitolo 5
Resoconto di una ricerca scientifica condotta a grandi profondità, in uno degli arcipelaghi più remoti dell’Indonesia.
Le Molucche. Questo arcipelago dal nome particolare, un tempo al centro del proficuo commercio delle spezie e quindi molto ambito dal mondo occidentale, per certi versi oggi sembra caduto nell’oblio. Tuttavia, furono proprio le mire del Vecchio Continente su questa regione che diedero il via a tutte le grandi spedizioni del tardo Medioevo. Cristoforo Colombo non avrebbe scoperto l’America nel 1492 se non avesse cercato un nuovo modo per raggiungere queste isole misteriose e dai sapori caratteristici.
Oggi, le Molucche appartengono all’Indonesia, un immenso arcipelago del sud-est asiatico. Sono divise in due province: le Molucche settentrionali e quelle meridionali. Questo arcipelago è al centro di quello che gli scienziati definiscono il Triangolo dei Coralli, espressione che evoca la geometria ma che, in realtà, si riferisce a un luogo di vitale importanza ecologica: si tratta dell’epicentro della biodiversità marina che comprende vari Paesi: Indonesia, Malesia, Filippine, Papua Nuova Guinea, Timor Est e le Isole Salomone, un cuore pulsante in cui si concentra la maggior quantità e varietà di specie marine al mondo. Oltre 600 specie di coralli duri, vale a dire quasi l’80% delle specie conosciute ad oggi nel mondo, forniscono l’habitat per più di 2000 specie di pesci e per sei delle sette tartarughe marine esistenti, tutte minacciate di estinzione a livello globale. Questa area geografica brulicante di vita è fondamentale per molte comunità umane che vi praticano una pesca di sussistenza, con metodi ancora fortemente tradizionali nelle zone più remote. Tuttavia, le minacce di origine antropica sono molteplici e hanno conseguenze evidenti: il turismo e la pesca intensiva rappresentano cospicue fonti di guadagno, ma mettono a repentaglio, nel breve termine, la salute degli ecosistemi marini, in particolare uniti alle conseguenze dei cambiamenti climatici.
Da un punto di vista scientifico, se paragoniamo le Molucche alle province vicine, noteremo che sono state oggetto di un numero relativamente limitato di studi dopo il passaggio nel XIX secolo del naturalista inglese Alfred Wallace, che restò nell’ombra ma, in realtà, scoprì la teoria dell’evoluzione insieme al suo ben più famoso collega e amico Charles Darwin. Le ricerche scientifiche più recenti sembrano infatti prediligere le isole e gli arcipelaghi circostanti, più popolati o più frequentati dai turisti: Bali, Sulawesi, Raja Ampat... Eppure le Molucche, con le loro acque ricche e limpide, non hanno nulla da invidiare alle isole vicine. Le parole di Alfred Wallace al suo arrivo nel porto di Banda Neira, un’isola delle Molucche meridionali, in cui il commercio della noce moscata è stato fiorente per secoli, lo confermano: “Banda è un luogo incantevole, le cui tre isole racchiudono un porto sicuro da cui non si vedono minacce e con un’acqua così trasparente che i coralli viventi e persino gli oggetti più minuscoli sono perfettamente visibili sulla sabbia vulcanica, a sette o otto braccia di profondità.”
Di conseguenza, ci sono ancora molti misteri scientifici da svelare in questa zona del mondo, in particolare nel Mare di Banda, situato nella provincia meridionale dell’arcipelago, che in alcuni punti raggiunge profondità record di oltre 6000 metri. È un luogo di passaggio in cui vivono molti mammiferi marini, tra cui le specie più grandi, le balenottere azzurre e i capodogli, e queste acque sono popolate da molte altre creature curiose, come il nautilus. La domanda ricorrente di chiunque abbia fatto ricerche sull’argomento è sempre la medesima: è possibile che il famoso celacanto indonesiano, la Latimeria menadoensis, si celi nelle profondità inesplorate di questa vasta regione? In fondo, questo pesce emblematico, che rappresenta una tappa determinante nell’evoluzione dei vertebrati terrestri, è stato osservato più a ovest, nell’isola di Sulawesi, e a est, in Papuasia... Quindi nulla vieta di immaginare che qualche individuo si sia spinto fin nelle acque delle Molucche!
C’è anche un altro aspetto interessante di questa parte dell’Indonesia: si trova a est della linea di Wallace, una linea di demarcazione che taglia l’arcipelago indonesiano e prende il nome dal famoso naturalista del XIX secolo che la scoprì. Questo confine immaginario, che sia pur con qualche piccola modifica, è ancora attuale, attraversa l’Indonesia da sud a nord passando per lo stretto di Lombok, che separa le isole di Bali e Lombok, e poi per lo Stretto di Makassar, tra le isole del Borneo e di Sulawesi. Sul lato occidentale c’è una fauna di tipo asiatico, mentre su quello orientale si ritrova una fauna più australiana. La teoria di Wallace si basava principalmente su osservazioni terrestri (invertebrati, uccelli, mammiferi), ma qual è invece la situazione sottomarina? La segregazione che sembra aver interessato gli animali terrestri continua anche sotto il livello del mare?
È in questo scenario avvincente che è nata la spedizione Deep Reefs of the Far East, sostenuta da Blancpain e condotta dall’associazione francese UNSEEN (“Underwater Scientific Exploration for Education”) e dai suoi collaboratori indonesiani dell’Università Pattimura di Ambon. La prima fase del 2022 si è concentrata sul Mare di Banda, in cui sono state organizzate per la prima volta immersioni tecniche con rebreather a circuito chiuso a profondità superiori a 100 metri, per documentare habitat e animali ancora poco conosciuti. La ricerca di nuove specie marine, tra cui pesci, spugne e coralli, lo studio dell’inquinamento causato dalla plastica e l’obiettivo inconfessato di scoprire habitat adatti a una nuova popolazione di celacanti sono state le forze trainanti di questa avventura umana e scientifica non priva di rischi.
Fino ad allora, nessun subacqueo aveva mai raggiunto simili profondità in questa remota regione dell’Indonesia. Infatti, organizzare spedizioni di questo tipo in luoghi così isolati rappresenta un ostacolo per molti esploratori. Tra le altre cose, abbiamo dovuto ottenere i permessi di ricerca dal governo centrale, raccogliere i fondi necessari, procurarci l’ossigeno e l’elio per le miscele respiratorie e, in seguito, organizzare la spedizione di oltre due tonnellate di attrezzature da Bali e Giacarta ad Ambon, la capitale della provincia. Fortunatamente, i molti anni trascorsi in Indonesia ci hanno permesso di sviluppare una rete di partner affidabili, grazie ai quali è stato possibile superare ogni ostacolo incontrato, spesso all’ultimo minuto. Ad esempio, come si fa a spedire quarantotto metri cubi di elio da Giacarta ad Ambon quando il capitano della nave su cui dovevano essere caricate le otto bombole cambia idea all’improvviso e si rifiuta di imbarcarle, proprio nel momento in cui sono state consegnate sulla banchina? Come recuperare urgentemente e rispedire in breve tempo, a sole due settimane dall’inizio del progetto, delle attrezzature bloccate in un container su una nave pronta a salpare da Giacarta, quando avrebbero dovuto essere già quasi a destinazione ad Ambon? Sono solo alcuni degli imprevisti che il nostro piccolo gruppo di appassionati ha dovuto risolvere in poche ore, per completare il progetto nei tempi previsti. Per non parlare dell’impennata del prezzo del petrolio all’inizio del 2022, che ha influito notevolmente sul budget della spedizione... Dopo aver superato questi innumerevoli ostacoli amministrativi, finanziari e logistici (e ce ne sono stati molti!), la partenza viene fissata per il 12 ottobre 2022 e finalmente salpiamo per una missione di trenta giorni intorno a queste isole leggendarie disseminate nell’immenso Mare di Banda.
Dopo un’immersione di riscaldamento a -87 metri al largo dell’isola di Maulana, qualche miglio a est dal porto di partenza, la nostra goletta parte alla volta di Banda Neira, a più di dodici ore di navigazione. La traversata notturna procede senza intoppi e il gruppo sembra già perfettamente ambientato.
Banda Neira. Che nome mitico. L’aura che emana è in perfetta armonia con le splendide luci dell’alba che inondano l’isola al nostro arrivo, verso le sei del mattino. E pensare che da qui, per secoli, sono partite le navi con le stive colme di noce moscata, tanto ambita dall’aristocrazia europea. A quei tempi, un sacco del prezioso carico sottratto da un marinaio senza scrupoli gli permetteva di concedersi una piccola casa e qualche servitore, vivendo di rendita per il resto dei suoi giorni.
Anche se le nostre immersioni sono dedicate alle discipline scientifiche della biologia e dell’ecologia, considerata la storia di questo luogo e i secoli di commerci che ne hanno solcato le acque, come non sognare di imbattersi nel relitto di una di queste imbarcazioni noleggiate da ricchi mercanti cinesi, arabi o, molto più tardi, occidentali? Potremmo persino sostituire provvisoriamente la biologia e l’ecologia con l’archeologia, una disciplina altrettanto affascinante. Malgrado le numerose immersioni profonde nelle acque che bagnano queste isole lussureggianti, non abbiamo trovato alcuna traccia di relitti millenari. Ma questa assenza è stata ampiamente ricompensata dall’abbondanza di vita che abbiamo avuto la fortuna di incontrare nel corso delle nostre immersioni.
Per questa prima settimana di spedizione, la National Geographic Society ci ha prestato la “deep-sea cam”, una telecamera per profondità marine elevate, sviluppata dai suoi scienziati e che è possibile abbandonare per ore fino alle incredibili profondità di circa 3500 metri. Con noi c’è anche Jonatha Giddens, dottoressa in biologia della conservazione e specialista di ambienti marini profondi, pronta a mettere a disposizione la sua esperienza per l’utilizzo di questa apparecchiatura dal design futuristico, che ci permetterà di ampliare il campo di indagine documentando profondità irraggiungibili dai subacquei. Nel nostro caso, la telecamera rimane immersa per alcune ore consecutive tra -160 e -430 metri, registrando tutto ciò che passa davanti al suo obiettivo. Squali di profondità, nautilus e pesci sconosciuti testimoniano i misteri della vita ad alta pressione. Questi ambienti così oscuri e impenetrabili in cui vivono questi animali agiscono come un mantello dell’invisibilità, un potere speciale che sembra proteggerli dallo sguardo dell’uomo. Dotata di due fari a LED e di un’esca per attirare i predatori delle profondità marine, questa telecamera scivola dolcemente verso il fondale oceanico e cattura alcune ore di video, prima di risalire in superficie alla fine del tempo a disposizione, come un tappo di sughero, senza preoccuparsi di dover effettuare lunghe tappe di decompressione. Ci offre diverse ore di voyeurismo scientifico, dandoci la possibilità di comprendere meglio le specie che abitano questo mondo che sfugge alla luce del sole. Che sorpresa veder passare, a 300 metri di profondità, lo squalo Hemitriakis indroyonoi... Questa specie, documentata solo nel 2009 per il ritrovamento di uno sfortunato maschio ancora immaturo la cui vita è stata brutalmente stroncata per finire sulla bancarella di un mercato del pesce a Bali, è già stata classificata a rischio di estinzione dall’IUCN. Probabilmente, ad oggi, siamo gli unici ad avere il video di un individuo ripreso nel suo ambiente naturale! Poi, è il turno del magnifico squalo manzo, Heptranchias perlo, che si esibisce con un’enorme murena in un balletto sottomarino improvvisato a 180 metri sotto la superficie.
Tuttavia, le immersioni profonde non si fermano e, nel corso delle estenuanti giornate seguenti, alterniamo immersioni dei subacquei e della telecamera.
Alle 5:30 del 15 ottobre, in seguito al nostro invito, abbiamo il piacere di accogliere a bordo della nostra barca vicino a Banda Neira un gruppo di studenti e ricercatori locali decisamente mattinieri, accompagnati dall’ONG indonesiana Luminocean di cui la ricercatrice e biologa marina Mareike Huhn è cofondatrice. Durante la loro visita, abbiamo avuto la possibilità di parlare della missione, spiegare come funzionano i rebreather per le immersioni e analizzare da vicino la “deep-sea cam” del National Geographic. Che gioia vedere gli sguardi meravigliati quando abbiamo mostrato loro le poche immagini raccolte durante le nostre prime immersioni nella zona mesofotica all’inizio di questa missione. Una meraviglia velata da qualche timore: oggi, il numero sempre crescente di imbarcazioni turistiche che portano i subacquei alla scoperta del Mare di Banda sta minacciando, con le loro ancore e catene, la ricchezza e la biodiversità finora rimaste invisibili...
Una ricchezza che le comunità locali conoscono in modo empirico, apprezzano e sfruttano, in particolare pescando con la tecnica tradizionale delle lenze.
Uno dei ricercatori ci ha chiesto di condividere con lui alcune delle nostre foto, per poterle utilizzare in modo da esortare le autorità locali a proteggere più efficacemente la regione da questa nuova e crescente minaccia, tipica di questo XXI secolo votato alle attività ricreative. È così che le nostre immagini assumono improvvisamente una connotazione molto concreta.
Poi, qualche giorno dopo, abbiamo l’onore di avere a bordo e di condividere la nostra quotidianità per tre giorni con Mark Erdmann, dottore in ecologia marina e specializzato negli ecosistemi corallini, che ci ha dedicato del tempo fra i suoi innumerevoli impegni. Mark Erdmann, attuale vicepresidente dei programmi per l’Asia e il Pacifico dell’ONG Conservation International, ha un legame di lunga data con l’Indonesia, in cui lavora da oltre vent’anni. Ed è proprio durante la sua tesi di dottorato a Sulawesi, nel 1997, che lui e la moglie scoprirono il primo esemplare di celacanto indonesiano, in un mercato del pesce di Manado. All’epoca, la scoperta fece grande clamore e, qualche anno dopo, fu confermato che la specie era molto diversa da quella ritrovata alle Comore, la Latimeria chalumnae. Le conversazioni con Mark sono state ricche e intense e, durante le cene, in un’atmosfera vivace, abbiamo avuto il piacere di ascoltare alcuni degli aneddoti avvincenti della carriera di quest’uomo, a cui si deve la descrizione di moltissime specie di pesci dell’Indo-Pacifico.
A quel punto, il gruppo si è già adattato ai ritmi della navigazione e i giorni a bordo della goletta per le immersioni volano. Ormai, i protocolli sono consolidati. I subacquei tecnici scendono instancabilmente, giorno dopo giorno, lungo i fondali, a volte vertiginosi, di isole coralline o di vulcani ancora attivi: raccolgono acqua e sedimenti per analizzare la concentrazione di microplastiche nelle barriere coralline profonde, raccolgono frammenti di spugne e coralli mesofotici per determinarne le specie e, naturalmente, scattano foto e realizzano video ad alta definizione per documentare questi mondi sommersi.
In seguito, raggiungiamo gli angoli più isolati del Mare di Banda, che percorriamo da ovest a est e da nord a sud. Le miglia nautiche si sommano e con la nostra barca riusciamo a raggiungere le zone più selvagge di questa provincia indonesiana. Le isole coralline con influenza oceanica, sperdute a ovest del Mare di Banda e bagnate da acque cristalline, contrastano con le isole a est, dall’influenza terrigena più marcata e con acque più torbide. Ma la biodiversità che le caratterizza è altrettanto eccezionale. Le barriere coralline, ricoperte di sabbia bianca e roccia calcarea, contrastano con le colate laviche delle isole vulcaniche, dalla roccia scura, che rende le nostre immersioni profonde ancora più inquietanti. È interessante vedere che, anche a grandi profondità, dopo un’eruzione vulcanica in cui l’emorragia di lava ha annientato ogni traccia di vita lungo il suo percorso, alla fine la vita si riprende ciò che le appartiene. Le spugne e i coralli riescono ad aggrapparsi persino a queste rocce vulcaniche di recente formazione e dalle superfici molto lisce. Questi organismi pionieri di vitale importanza creano un nuovo habitat che permette a numerosi animali marini di trovare riparo e alimentarsi.
Immergersi su una colata lavica trasmette una sensazione del tutto particolare: quella di trovarsi faccia a faccia con un episodio devastante del passato, già perdonato dagli animali temerari che ricolonizzano questo luogo infausto. Queste immersioni testimoniano la resilienza della fauna sottomarina, fermamente determinata a riprendere il sopravvento dopo una catastrofe che ha portato via così tante vite. Questi eventi eccezionali, di breve durata rispetto alla scala geologica, contribuiscono a modellare i nostri oceani e a plasmare la vita che vi si sviluppa. L’immersione lungo una barriera corallina offre un’impressione del tutto differente, ma altrettanto straordinaria.
Infatti, scendere lungo questo tipo di parete, è come tornare indietro nel tempo. Il fondale marino che si dispiega sotto i nostri occhi mentre scendiamo potrebbe rappresentare la nostra linea del tempo.
Dimenticata a una profondità tra 100 e 130 metri, giace la barriera mesofotica, che quasi 20.000 anni fa, durante l’ultimo massimo glaciale, spesso era una barriera corallina vicina alla superficie, o persino completamente emersa.
È quindi possibile immaginare che le specie si siano aggrappate a questo ambiente vitale a cui si erano abituate nel corso dei millenni, scivolando gradualmente negli abissi a mano a mano che i ghiacci si scioglievano e il livello del mare si innalzava, sprofondando gradualmente nell’oblio con l’affievolirsi della luce. Altrimenti, come spiegare i colori brillanti e decisamente surreali di alcuni pesci, che vivono in un’oscurità quasi totale, dove tutte le lunghezze d’onda dello spettro di luce visibile vengono assorbite?
Non dimentichiamo che l’acqua è un nemico giurato della luce, che riflette e assorbe più si scende in profondità. Possiamo quindi capire perché alcune specie di acque profonde abbiano scelto di vestirsi con tonalità di rosso, come questo scorfano pigmeo che si trova a una profondità di -130 metri. Il rosso, infatti, è la prima lunghezza d’onda a scomparire, ad appena pochi centimetri dalla superficie. In fondo, è un mimetismo ideale per proteggersi dai predatori, ma anche per tendere imboscate e ingoiare prede incaute che si sono avvicinate troppo. Ma perché ci sono anche altri colori, motivi e forme, in un luogo dominato dall’oscurità? Questo incredibile anthias con pinna dorsale dotata di un terzo raggio sovradimensionato, Odontanthias sp., una specie non ancora descritta che abbiamo fotografato a quasi 140 metri di profondità, riassume perfettamente questo paradosso. Perché spendere energie per comporre colori e caratteristiche morfologiche così accentuate se nessuno dei propri simili può ammirarle in questa oscurità permanente? E questo Aulacocephalus temminckii dalla banda dorata, immortalato a 122 metri di profondità, con un aspetto che evoca un’auto sportiva...
E se questi colori, rivelati dai flash delle macchine fotografiche e dai fari dei subacquei, fossero una caratteristica ancestrale, testimonianza di una vita che un tempo era più vicina alla superficie, dove i pigmenti variopinti degli antenati avevano effettivamente un ruolo da svolgere?
Al momento, si tratta di ipotesi meramente personali, ma le lunghe ore di decompressione obbligatoria dopo un’incursione in questo universo crepuscolare ci fanno sorgere domande su queste strane creature che abbiamo appena incrociato e sul motivo per cui indossano ancora abiti da sera variopinti, mentre le luci sulla pista da ballo si sono spente ormai da tempo. Se è concesso riflettere durante le tappe di decompressione, non è possibile farlo a -140 metri. Il tempo incalza. Ogni secondo è prezioso. Dobbiamo prelevare metodicamente i campioni di cui gli scienziati in superficie hanno bisogno e scattare le foto, indispensabili per documentare queste barriere coralline profonde e i loro abitanti. Ogni attività sembra durare un’eternità, poiché a queste profondità assegniamo al tempo un valore diverso rispetto a quando siamo in superficie. Possiamo rimanere a quelle profondità per dieci o quindici minuti al massimo. Immaginate un fotografo naturalista che vada nella foresta solo per pochi minuti al giorno, cercando di immortalare animali rari, a volte persino sconosciuti e quasi sempre schivi, per poi viaggiare per ore prima di rientrare a casa. Ora, aggiungete i vincoli imposti dall’ambiente acquatico, bardati con attrezzature pesanti e ingombranti, la cui idrodinamica e manovrabilità sono più simili a quelle di un carrello del supermercato stracolmo che a quelle di un delfino nato per saltare. A quel punto, provate a immaginare di inseguire specie dalla linea affusolata e da un’implacabile agilità acquatica e che, come se non bastasse, conoscono quei luoghi alla perfezione. Non dimentichiamo poi le particolarità della fotografia subacquea, resa ancora più complessa dalla penombra: dovete trovare il soggetto, riuscire ad avvicinarvi con la massima discrezione, mettere a fuoco e, infine, sempre controllando l’assetto, scattare per immortalarlo prima che scompaia in un crepaccio per non emergerne più.
In altre parole, i secondi che scorrono durante questa ricerca scientifica e fotografica sono travagliati e spesso proviamo una grande frustrazione quando non riusciamo a scattare la foto di una specie rara. Ogni istantanea riportata in superficie da queste zone mesofotiche, per la persona che l’ha scattata ha quindi un sapore e un valore speciale, di cui spesso il pubblico non è consapevole.
Paghiamo a caro prezzo questi minuti preziosi di incursione in questo mondo così ostile all’uomo: a seconda del nostro grado di impudenza, dobbiamo effettuare da tre a cinque ore di decompressione, durante le quali abbiamo il divieto di emergere, per evitare la sindrome da decompressione, che, in caso di immersioni così impegnative, sarebbe fatale. Occorre quindi pazientare per lunghe ore prima di tornare in superficie. Qualsiasi problema si presenti sott’acqua, deve essere risolto sott’acqua. Ecco perché partiamo con un carico così pesante: circa 80 chili di attrezzatura, una buona parte della quale è costituita dalle bombole di emergenza, nel caso in cui il nostro rebreather dovesse smettere di funzionare. Come angeli custodi, i membri del team di superficie vegliano su di noi dal piccolo gommone e ci vengono incontro per sincerarsi che, durante la tappa di decompressione, vada tutto bene. In quell’occasione, recuperano anche alcune delle attrezzature che non ci servono più e i preziosi campioni che saranno conservati a bordo, per essere analizzati una volta tornati sulla terraferma.
Lo spettacolo continuo che si presenta ai nostri occhi nella parte finale dell’immersione è altrettanto piacevole e ci fa dimenticare un po’ la fatica e il dolore che avvertiamo alla schiena, ma anche alle mascelle, per aver tenuto il boccaglio così a lungo. Carangidi e serpenti che cacciano in banchi di anthias, un piccolo granchio discreto nascosto nel corallo, un nudibranco in cerca del suo prossimo pasto o ancora questa bavosa che ha preso dimora in un vecchio tubo che un verme anellide aveva scavato pazientemente nel corallo: la vita è ovunque.
Ogni anfratto della barriera corallina è ricoperto da animali o vegetali, che dimostrano un adattamento minuzioso e sorprendente, frutto di milioni di anni di inarrestabile evoluzione. L’Evoluzione, questa artista dalla creatività inesauribile e spesso incompresa, che da miliardi di anni scolpisce instancabilmente e senza distinzioni ogni creatura vivente con cui condividiamo questo pianeta blu, ha ancora molti segreti da offrire per soddisfare la curiosità umana che essa stessa ha creato.
Tra queste immersioni impegnative e sorprendenti, abbiamo persino trovato l’energia e l’audacia per concederci qualche esplorazione notturna, a una profondità di pochi metri, per osservare l’intrigante fauna che emerge dall’oscurità e brulica nelle acque buie dopo che il sole si è assopito. Queste notti di immersioni sono animate da pesci volanti dai colori metallici, che sfoggiano pinne immense come statue di minerali preziosi, anellidi che gesticolano freneticamente per muoversi nella colonna d’acqua e, naturalmente, una miriade di larve di pesci e invertebrati che partecipano alla più grande migrazione giornaliera esistente sulla Terra. E non dimentichiamo i serpenti di mare, in tenuta da galeotti, che fanno la spola tra il fondale marino, in cui si nutrono, e la superficie, dove riprendono fiato!
Un autentico festival della vita. È impossibile stancarsi degli spettacoli che si susseguono davanti ai nostri occhi stupefatti. E come sopportare l’idea che l’essere umano stia saccheggiando gli oceani, che coprono il 70% della superficie del nostro pianeta, e che utilizzi tecnologie sempre più avanzate e potenti per fare strage di questa vita copiosa e innocente? L’Homo sapiens ha forse dimenticato che questi esseri a cui manca di rispetto in tal modo non sono altro che suoi lontani cugini? Come possiamo continuare a illuderci che le risorse marine siano inesauribili e che l’oceano perdonerà in eterno i nostri affronti facendo sparire, assimilando e cancellando silenziosamente e senza chiedere in cambio alcuna contropartita, tutti gli eccessi della società moderna, spinta da avidità ed egoismo illimitati? L’ultima trovata dell’uomo, l’estrazione mineraria in acque profonde, rispecchia perfettamente questo modo di pensare, ormai appartenente a un’altra epoca. È ancora possibile, oggi, con tutto ciò che sappiamo, non desiderare di difendere ancora di più questi grandiosi mondi sottomarini che ci ispirano, proteggono e offrono la vita? Perché se è vero che la vita è iniziata in un oceano primitivo quattro miliardi di anni fa, per poi svilupparsi e diversificarsi fino alla comparsa dei primi organismi terrestri, oggi questa vita è ancora possibile grazie agli oceani attuali, che producono l’ossigeno che respiriamo, oltre a renderci molti altri servizi. Distruggerli equivale alla nostra condanna. Teniamolo bene a mente in un angolo della nostra corteccia eccessivamente sviluppata. Siamo innegabilmente la progenie più turbolenta e insolente di questo brodo primordiale!
Alla fine, quando la stanchezza e la ragione ci costringono a uscire dall’acqua sotto un cielo scintillante di milioni di stelle per tornare alle nostre cuccette, ci addormentiamo con la testa piena di immagini.
Ma c’è sempre una domanda a cui non siamo in grado di rispondere: cosa avremmo visto se fossimo rimasti un po’ più a lungo?
Di giorno, abbiamo esplorato anche i pendii sommersi e poco profondi dei vulcani ancora attivi. Paesaggi incantevoli, malgrado l’estrema violenza dei fenomeni che si verificano sotto la crosta oceanica. I gas che fuoriescono dalla roccia attraverso le fessure, vere e proprie valvole di sovrapressione, formano bolle che salgono in superficie. Un idromassaggio naturale che deposita uno strato di zolfo sulla superficie della sabbia vulcanica nera, come se una mano creativa l’avesse cosparsa delicatamente di una pellicola d’oro. Le bolle smuovono anche la materia organica dal substrato oceanico, rimettendola in sospensione nella colonna d’acqua, dove nuotano dei pesci. Alcuni coralli duri sembrano persino a loro agio in questo ambiente incerto e potenzialmente acido. È forse l’Evoluzione ad aver svelato loro il segreto per adattarsi all’acidificazione degli oceani causata dall’attività umana?
In trenta giorni trascorsi in mare, abbiamo effettuato ben venticinque immersioni profonde, ventitré delle quali a più di 100 metri di profondità e tredici comprese tra -120 e -140 metri. Durante questo mese di spedizione, ognuno dei tre subacquei tecnici ha trascorso da tre a più di quattro giorni sott’acqua, con immersioni della durata media di 3 ore e mezza, compresa un’immersione record di 5 ore e 13 minuti! Abbiamo riportato in superficie migliaia di foto, ore di video e circa sessanta campioni che dovranno essere analizzati meticolosamente, nella speranza di trovare nuove specie. Un tale risultato rappresenterebbe un impulso per proteggere in modo più incisivo le magnifiche ricchezze marine di questa regione. Le immagini documenteranno per la prima volta queste barriere coralline profonde, caratterizzate da un’insospettabile diversità. Quelle analizzate hanno già permesso agli scienziati di identificare almeno 100 specie di pesci che vivono nella zona mesofotica inferiore (oltre -70 metri), dodici delle quali avvistate per la prima volta in Indonesia e trentasette che mostrano nuovi primati di profondità. Torniamo anche con molti interrogativi: qual è il modo di vivere e l’interazione sociale di questo Hoplolatilus randalli, una specie di pesce descritta nel 2010 di cui abbiamo osservato decine di nidi a 70 metri di profondità in uno dei siti?
Come fanno questi architetti di talento a costruire nidi molto più grandi di loro usando detriti di coralli, a profondità in cui i coralli sono assenti? Qual è l’impatto reale delle ancore delle barche per le immersioni su questi ambienti profondi, in cui gli organismi che si sviluppano hanno senza dubbio una crescita più lenta rispetto a quelli più vicini alla superficie? In che modo il cambiamento climatico influenzerà questi ambienti mesofotici nei prossimi anni e quali saranno le ripercussioni sulle comunità locali? Tante domande che esortano a dare un seguito a questa prima spedizione!
Anche il celacanto indonesiano rimane un mistero. La temperatura dell’acqua, esageratamente alta a più di 100 metri di profondità, a causa di un’insolita La Niña che si è imposta per tre anni, non era certo a nostro favore. Come sostiene Mark Erdmann, “in queste condizioni, possiamo immaginare che i celacanti si siano spinti più in profondità”, per cercare le temperature che prediligono, inferiori a 18 °C... Ma gli habitat favorevoli alla presenza di questo pesce leggendario ci sono, e ci invitano a perseverare e a proseguire la nostra ricerca nel cuore di questa zona, ancora selvaggia e carica di misteri.