Capitolo 6
L’attenzione estrema che la famiglia Gaja dedica a ogni dettaglio ha reso i suoi Barbaresco e Barolo veri e propri punti di riferimento tra i migliori Nebbiolo del mondo.
È diventato di uso corrente parlare di «rivoluzione» quando ci si riferisce a vini Barbaresco e Barolo di alto livello. Questi vini sono entrambi l’orgoglio delle Langhe, la regione collinosa del Piemonte italiano, e meritano a giusto titolo di essere considerati i migliori vini del mondo nati da uva Nebbiolo. Questo concetto di rivoluzione, promosso e alimentato dal film documentario Barolo Boys, dipinge la regione del Barolo in preda a una vivace disputa tra audaci modernisti e tradizionalisti ostinati, intenti a combattersi e sminuirsi a vicenda. I modernisti accusano i tradizionalisti di produrre vini eccessivamente tannici, che richiedono decenni di invecchiamento prima di diventare apprezzabili. I tradizionalisti ribattono che i modernisti non sanno produrre vini capaci di invecchiare o di maturare e, peggio ancora, che il loro comportamento sfiora il tradimento per l’uso che fanno di botti provenienti dalla Francia!
Come accade quasi sempre negli scontri di questo genere, la verità sta altrove. Mi viene in mente una scritta appesa al muro nella cucina di Marc Haeberlin a Illhaeusern (Auberge de l’Ill, reso illustre da oltre 50 anni onorati da tre stelle Michelin). La scritta riporta una saggia sentenza di Paul Bocuse: «Classica o moderna, esiste un’unica cucina: quella di qualità.» Ciò che conta non è tanto l’etichetta che parla di tradizione o di modernità, ma la qualità. Lasciando risolutamente da parte la disputa che coinvolge la produzione dei vini nelle Langhe, è la qualità il mantra che guida l’operato della famiglia Gaja nel dar vita ai loro Barbaresco e Barolo. Ai Gaja, insomma, importa unicamente produrre vini di eccezionale qualità.
Che si voglia o meno classificare gli odierni vini Barbaresco e Barolo come moderni o tradizionali, a seconda della loro derivazione, è impossibile negare i profondi cambiamenti avvenuti nell’ultimo mezzo secolo. Qualche cenno storico ci mostrerà quanto sia stata cruciale questa trasformazione. Citiamo una considerazione di Ottavio Ottavi, il fondatore della prima rivista italiana di viticoltura ed enologia. Il quale scriveva senza troppi giri di parole: «È un fatto innegabile che attualmente produciamo pochissimo vino di qualità e molto aceto... Mentre una bottiglia è degna del palato di un papa, un’altra è a malapena adatta alla cottura di peperoni.» Gran parte di questa deprimente valutazione del passato può fungere da epitaffio per la storica assenza in Italia di un fiorente commercio di vini da esportazione.
A differenza della Francia, i cui vini erano accolti con entusiasmo dai mercati stranieri, per decenni il commercio di vini in Gran Bretagna, e poi in America, sembrò ignorare quelli prodotti in Italia, in particolare nelle Langhe. Di conseguenza, fino agli inizi degli anni 1960 il vino era una coltura secondaria nella regione piemontese. Osservando gli impeccabili vigneti odierni di Barbaresco e Barolo, è difficile credere che in passato era consuetudine seminare altre cose tra i filari delle viti – dove si raccoglieva più grano che uva. Per far quadrare i conti i proprietari dei vigneti si dedicavano spesso all’allevamento di animali, alla coltivazione di frutta e di nocciole (una specialità delle Langhe), da cui traevano le loro principali fonti di reddito. Quanto al vino, in mancanza di un mercato straniero importatore, la maggior parte veniva consumata nella regione a prezzi irrisori.
Questo è il quadro decisamente poco lusinghiero che la famiglia Gaja si è trovata di fronte nel momento in cui l’attuale patriarca della famiglia, Angelo Gaja, otteneva nel 1961 il diploma presso la scuola di viticoltura ed enologia di Alba. A quel tempo il padre di Angelo, Giovanni, gestiva l’attività vinicola della famiglia a Barbaresco. E riusciva a cavarsela meglio della maggior parte degli altri produttori della regione. La principale fonte di reddito di Giovanni derivava dalla sua professione di geometra, che gli lasciava le mani libere dai compromessi a cui erano costretti coloro che dipendevano totalmente dai loro vigneti. Quando il vino non soddisfaceva le sue esigenze qualitative, Giovanni poteva ovviare alla situazione vendendolo come vino sfuso: un’alternativa economicamente insostenibile per molti altri viticoltori delle Langhe. La sua ricerca ostinata della qualità è stata premiata. Negli anni 1950, quando il Barbaresco quotava in generale tra le 300 e le 600 lire al litro, i vini di Giovanni imponevano il prezzo allora stratosferico di 1200 lire.
Senza un mercato di esportazione al di fuori delle Langhe, e con i prezzi bassi dei vini, molti viticoltori si scoraggiavano e mettevano in vendita preziosi appezzamenti di terreno. Giovanni fu abile nel cogliere l’occasione che gli si offriva di acquisire strategiche parcelle nella zona di Barbaresco: Sorì San Lorenzo fu acquistata nel 1967, Sorì Tildin nel 1970 e Costa Russi nel 1978. Oggi questi nomi sono apprezzatissimi, ma quando furono acquistate le relative parcelle di terreno erano tutt’altro che famosi. Angelo descrive quella che in seguito chiamò Sorì San Lorenzo come un vigneto «in rovina», il cui proprietario imprecava «per quanto gli costava... mentre un mezzadro era costretto a fare salti mortali per sbarcare il lunario».
A quell’epoca i vigneti di cui stiamo parlando non avevano i nomi con i quali sono oggi ben noti. L’Italia non si comporta come la Francia quando si tratta di dare un nome a un vigneto. L’uso prevalente nelle aree
del Bordeaux e della Borgogna era ed è di chiamare i vini semplicemente con il nome della zona in cui nascono, senza altre precisazioni. Uno Chambertin-Clos de Bèze o uno Chassagne-Montrachet Les Ruchottes sono puri e semplici appellativi, niente di più. Nella lingua francese questi sono chiamati cru, e i confini precisi di ogni cru – e il diritto di usarne il nome – sono stati stabiliti da secoli e sono controllati rigorosamente. In alcune rare eccezioni sono stati aggiunti dei nomi supplementari alla designazione del cru. Nel caso del Clos de Vougeot «Musigni» di Bernard Gros l’aggiunta del termine «Musigni» indica una specifica area ristretta (quella che in Italia si chiama «particella catastale») nell’ambito del grand cru Clos de Vougeot. Il Vosne Romanée Les Malconsorts «Christiane» di Etienne de Montille identifica a sua volta una piccola superficie interna del premier cru Les Malconsorts. Si tratta tuttavia di eccezioni alla pratica generale, come abbiamo detto.
Quando Angelo prese le redini dell’azienda paterna, nel 1970, rimase fedele alle scelte di Giovanni, riconoscendo che quelle tre particelle catastali costituivano appezzamenti speciali. Le caratteristiche dei terreni, la loro posizione sul pendio, l’esposizione al sole e l’influsso del fiume Tanaro invitavano a vinificarli separatamente, contrariamente alla pratica generale di mescolare vini provenienti da vigneti diversi. Questo ha portato a identificarli con nomi specifici per segnare le diverse zone di provenienza. Due di questi si trovano in quello che oggi è conosciuto come il vigneto Secondine, adiacente al villaggio di Barbaresco. La particella nota oggi come Sorì San Lorenzo prende il nome dal santo patrono della cattedrale di Alba (nel dialetto locale «Sorì» indica un pendio esposto a sud). L’altra particella, chiamata Sorì Tildin, porta il diminutivo del nome della nonna, Clotilde Rey. La terza acquisizione fatta dal padre Giovanni, nel vigneto Roncagliette, si chiama Costa Russi, dal nome del precedente proprietario.
Vinificare e imbottigliare separatamente il prodotto di queste tre particelle permette a ogni vino di esprimersi in modo diverso. Il Costa Russi è il più morbido dei tre e il più apprezzabile da giovane. Il Sorì Tildin ha tannini più presenti e generalmente maggiore acidità. Sorì San Lorenzo è il più speziato, il più corposo dei tre e quello che richiede un maggiore invecchiamento.
Quando Angelo iniziò a etichettare i suoi vini in questo modo, nell’area del Barbaresco e del Barolo vigeva l’usanza di dare un nome legato esclusivamente alla regione. Perciò i vini erano venduti come Barbaresco DOCG e Barolo DOCG. I vigneti come il Secondine e il Roncagliette, situati entrambi nell’area del Barbaresco DOCG, non erano ancora individuati singolarmente. La mappatura e la denominazione di specifiche aree vinicole come il Secondine e il Roncagliette sono state definite solo in tempi relativamente recenti, grazie a un progetto ventennale del Consorzio di Tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Roero.
Dal punto di vista storico le decisioni prese da Angelo a proposito dei tre vigneti citati erano manifestamente audaci e lungimiranti. Mentre la pratica correnteconsisteva nel «tagliare» (ossia mescolare) vini provenienti da vigneti diversi, egli vinificava e imbottigliava singolarmente ognuno dei suoi vini. E quando i Barbaresco erano venduti generalmente senza una specifica denominazione dei vigneti, egli si spingeva ancora oltre, specificando l’identità della particella.
Sebbene l’attribuzione di nomi alle particelle rappresentasse una pratica diversa dall’uso francese, Angelo Gaja fu chiaramente influenzato dal tempo che trascorse in Francia dopo il diploma e prima di subentrare a suo padre. Il suo obiettivo era preciso: innalzare la qualità dei vini Gaja fino al vertice dell’élite vinicola mondiale. Analogamente a quanto facevano i produttori di vino più apprezzati in tutto il mondo, la sua ricerca della qualità non si concentrava su un singolo elemento: era multidimensionale. Molte delle sue innovazioni miravano a ridurre la resa dei suoi vigneti. È chiaro che, procedendo correttamente, limitare la resa significa accrescere la qualità del frutto e quindi la qualità del vino. Uno dei suoi metodi consisteva nell’aumentare la densità delle piante, costringendo le viti a disputarsi il terreno. Un altro consisteva nel variare l’orientamento dei filari in modo che seguissero il pendio anziché attraversarlo. Ma era la sua terza tecnica, la potatura rigorosa dei boccioli, a suscitare nelle Langhe perplessità e scalpore, per non dire un vero e proprio scandalo. Angelo decise di potare le sue viti in modo da lasciare solo dodici gemme per vite (più tardi ridusse il numero a otto), mentre molti coltivatori arrivavano a venti o più. Consideriamo che rinunciare a un singolo bocciolo per ogni acro di vigneto significava ridurre la quantità del raccolto di ben 1600 grappoli. La decisione di Angelo era di eliminare molti boccioli, diminuendo sensibilmente la resa. I pettegolezzi che correvano nel villaggio mettevano in dubbio la sua lucidità mentale. Ci si chiedeva se la sua azienda sarebbe fallita, non essendo più in grado di pagare i dipendenti. Diminuendo ulteriormente le quantità, Angelo istituì la «vendemmia verde», riducendo il volume dei grappoli prima che raggiungessero la piena maturazione, in modo che la vigna potesse concentrare le sue energie sulla maturazione completa dei grappoli residui.
Seguirono altre iniziative per accrescere la qualità. Recentemente Angelo Gaja ha ridotto l’altezza del fogliame delle viti per far sì che si adattino a temperature più calde. Con meno foglie le vigne crescono più lentamente, riducendo la quantità di zucchero in caso di forti calori. Il troppo zucchero dà un vino eccessivamente alcolico. Perfino le api sono state studiate, sia perché la loro presenza è la riprova della «salute» dell’ambiente – frutto dell’impiego esclusivo di metodi naturali – sia per sfruttare i loro lieviti.
I passaggi successivi riguardarono le cantine: vinificazione a temperatura controllata, periodi di macerazione abbreviati, impiego di piccole botti di rovere francese, nuove o vecchie di un anno, della capacità di 225 litri (la misura standard per i vini di Borgogna e di Bordeaux), mentre la pratica locale consisteva nell’invecchiare il vino in botti grandi (spesso di 2000 litri, ma a volte perfino di 15.000 litri) usate e riusate per molti anni, con tappi più lunghi.
Ciò che è notevole nei cambiamenti introdotti da Angelo è che li ha realizzati dopo e nonostante i grandi successi ottenuti da suo padre Giovanni. Egli era profondamente convinto della validità del vecchio adagio che dice: «Se non è rotto, non aggiustarlo.» Infatti non tutte le sue trasformazioni furono ben accolte dalla famiglia. Quando convertì da Nebbiolo a Cabernet uno dei vigneti familiari a Barbaresco (tutti i Barbaresco e i Barolo DOCG devono essere al 100% di Nebbiolo), la sua scelta fu doppiamente contestata perché non solo era qualcosa di diverso dal Nebbiolo, ma anche perché francese. Suo padre Giovanni non solo rifiutò di berlo, ma chiamò «Darmagi» quella particella di terreno. («Darmagi» significa in piemontese «che peccato!»)
Quindi, come andrebbero classificati i metodi di Angelo Gaja alla luce del dibattito fra modernisti e tradizionalisti? In realtà egli non si schierò né da una parte né dall’altra. Sarebbe scorretto etichettarlo come modernista semplicemente perché ha scelto una linea diversa da quella di suo padre in molte tecniche di vinificazione. La famiglia Gaja ritiene semplicemente che non esiste un unico metodo per produrre grandi vini nelle Langhe. Prendiamo per esempio la sua decisione di piantare del Darmagi Cabernet o quella, contestata all’epoca, di coltivare dello Chardonnay per imbottigliarlo come Gaia & Rey (dai nomi di sua figlia Gaia e della nonna Clotilde Rey). Gli irriducibili ritenevano che l’uva del Barbaresco doveva essere solo Nebbiolo. Certo, il Nebbiolo prospera nelle aree del Barbaresco e del Barolo, ma perché precludersi altri tipi, soprattutto sapendo che, nel passato più remoto, i vignaioli producevano molte varietà?
Neppure il suo uso della quercia francese giustifica l’etichetta di modernista. Quando alcuni viticoltori ruppero i ranghi e si identificarono come modernisti, alcuni di loro adottarono le botti di rovere francese. Risultato: nei vini prevalevano spesso i sentori del legno. Per i Gaja la quercia francese è solo uno degli elementi che concorrono alla lavorazione dei loro vini. In generale i Barbaresco e i Barolo trascorrono un anno in botti di rovere francese, poi un anno nelle botti grandi (barriques e tonneaux). Ma non si tratta di una regola assoluta. I periodi sono regolati secondo le caratteristiche della vendemmia, sicché in alcuni casi il rovere francese non viene utilizzato affatto. Per ogni annata il vino viene degustato dopo la fermentazione, e la decisione che viene presa riguarda non solo la durata dell’invecchiamento nelle piccole botti francesi ma anche la ripartizione tra nuove botti e botti vecchie di un anno.
Oggi la famiglia Gaja possiede 250 acri di vigneti nelle aree del Barbaresco e del Barolo. Analogamente a quanto fa già con le tre particelle di Barbaresco, ha cominciato a produrre dei vini Barolo, chiamati Sperss e Conteisa, provenienti da un singolo vigneto. Naturalmente offrono anche dei Barbaresco e dei Barolo ottenuti attraverso tagli di prodotti coltivati in più vigneti. Per esempio il loro Barbaresco DOCG nasce dal taglio di quattordici diversi vigneti situati nei villaggi di Barbaresco e del vicino Treiso. Anche se questi vini sono frutto di taglio, le loro uve vengono raccolte, vinificate e invecchiate separatamente prima di essere mescolate al momento dell’imbottigliamento. Grazie a questo metodo la famiglia Gaja può decidere quale percentuale di ogni vigneto entrerà a far parte della miscela finale. Il successo ottenuto nelle Langhe ha permesso ai Gaja di estendere la loro attività in Toscana con vini di Montalcino: Pieve Santa Restituta e Ca’ Marcanda.
Benché sia tuttora attivo, Angelo Gaja ha trasferito la responsabilità della gestione ai suoi tre figli: Gaia, Rossana e Giovanni. La famiglia afferma con orgoglio che non esiste un organigramma che assegni responsabilità specifiche a ciascuno di loro. Invece tutti i membri della famiglia, compresa la moglie di Angelo, Lucia, partecipano in qualsiasi momento a tutte le attività della Casa, decidendo sulla vinificazione, la degustazione, l’accoglienza dei visitatori, il trattamento dei clienti sia in Italia che all’estero. Esattamente come dovrebbe fare ogni famiglia che presenta con orgoglio i vini che portano il suo nome. •
Queste note sulla degustazione riuniscono le memorie e le esperienze maturate negli ultimi trent’anni dal Dr. George Derbalian, l’esperto di vini di Lettres du Brassus, e quelle di Jeffrey S. Kingston.
2015 BARBARESCO.
È stata un’estate calda che si è conclusa con temporali in agosto e, in seguito, con un calo delle temperature che ha portato a una lunga maturazione delle uve. Al naso, profumo di viole e di rose con tracce di caffè. Sapore morbido e delicato con aromi gradevoli di ciliegia e altri frutti rossi. Sentore di liquirizia. Finale morbido e lungo.
2014 SPERSS (BAROLO).
Un’estate fredda con molta pioggia. La vendemmia si è svolta a metà novembre. Naso speziato, note di pepe rosa. Sapore vivace e potente al palato con presenza di mirtilli rossi, cuoio, liquirizia. Il tutto sostenuto da una struttura profonda e da acidità equilibrata. Finale lungo e pieno.
2006 GAIA & REY (CHARDONNAY).
Questa è una miscela di due vigneti, situati uno a Treiso, vicino a Barbaresco, l’altro a Serralunga d’Alba (zona del Barolo). Gaia & Rey è stato il primo Chardonnay a riposare in botti di rovere francese e a sottoporsi a fermentazione malolattica. Al naso, fiori di caprifoglio e noci tostate. Presente e rotondo al palato con sapore di nocciole. Finale lungo.
2014 SORÌ TILDIN (BARBARESCO).
Al naso, sentore di lampone e di prugna. Gusto rotondo e persistente in bocca, senza asperità. Bel finale di frutti rossi.
1999 SPERSS.
Vino pieno. Naso contraddistinto da cannella e ribes nero con sentore di prugne, terra, liquirizia. Potenza ed equilibrio importanti. Finale straordinario.