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Capitolo 8

Mediterraneo: IL FUOCO SOTTO IL MARE

«C’è qualcosa di ancora più impressionante della potenza distruttiva del vulcano: il modo in cui la vita sottomarina si rigenera...»

Autori del capitolo

LAURENT BALLESTA

Autori del capitolo

LAURENT BALLESTA
Mediterraneo: IL FUOCO SOTTO IL MARE
Mediterraneo: IL FUOCO SOTTO IL MARE
Numero 22 Capitolo 8

Siamo qui per fare immersioni profonde in un sito straordinario chiamato «LA VALLE DEI DUECENTO VULCANI».

La notte è splendida, così come lo è il mare. L’aria invece è fredda, malgrado l’inizio anticipato della primavera, che preannuncia il caldo che verrà. È proprio così, in mare le stagioni sono sempre un po’ in ritardo. Il paradosso dell’acqua, mutevole e instancabile, ma lenta a riscaldarsi. La Victoria sta navigando lentamente verso sud. Per una volta, sono io al timone. È la prima ed ultima volta che darò il cambio al capitano. Una volta iniziata la missione, come di consueto, i subacquei di profondità saranno esentati dalla guardia notturna, per poter riposare tra le lunghe e faticose immersioni.

Potrei seguire facilmente la rotta osservando i sofisticati strumenti sul ponte e lasciando che il pilota automatico faccia il suo lavoro, ma come resistere alla navigazione ancestrale guidata da una piccola luce incandescente visibile in lontananza all’orizzonte? Conosciuto come il faro del Mediterraneo, non è opera dell’uomo, bensì delle viscere infuocate della Terra: è il cratere dell’isola vulcanica di Stromboli, nell’arcipelago delle Eolie, a nord della Sicilia. Benché questo bagliore tremolante sia appena percepibile da lontano, è lì da migliaia di anni.

Dobbiamo incontrare il vulcanologo Francesco Italiano. È stato lui a scoprire, e in seguito a rivelare al mio amico subacqueo Roberto Rinaldi, l’esistenza di fenomeni vulcanici profondi. Roberto si è immerso una volta in quel luogo, mi ha parlato di quell’esperienza incredibile e così è stato gettato il seme della missione. Da allora sono trascorsi due anni, il tempo necessario per organizzare una missione che avesse un senso, cioè che potesse essere utile agli scienziati locali e aiutarli nelle loro ricerche. Non mi sono mai davvero accontentato di partire semplicemente per «andare a vedere» un certo posto. Il nostro viaggio deve servire a svelare qualche segreto, meglio ancora se accompagnato da belle immagini. La bellezza del mondo è senza dubbio importante, eppure è meno affascinante dei suoi misteri.

Siamo nel bel mezzo di una pandemia. L’ultimo G7 si è tenuto in videoconferenza. I leader del G7 sono fiduciosi, o almeno così dicono, che l’economia globale si riprenderà notevolmente una volta messi a punto i vaccini. Non si aggiunge altro, come se non ci fossero altre lezioni da imparare da un piccolo virus che sta mettendo in ginocchio l’intera umanità. I capi di Stato sono sugli schermi e noi siamo in mare, sotto al cielo, in un Mediterraneo senza turisti. Dopo quattro giorni di navigazione e uno scalo a Napoli per andare a prendere Roberto, non abbiamo ancora visto un solo yacht, quasi nessun traghetto e neanche una nave da crociera. Navigare tra le alte scogliere di Capri e incrociare solo una barca di pescatori è più che un privilegio, è un viaggio nel tempo. I dintorni di questo castello di pietra calcarea appaiono come qualche secolo fa, senza visitatori.

La Victoria si dirige verso Stromboli, il vulcano più attivo delle Isole Eolie, che erutta regolarmente. Uomini e donne vivono sui suoi versanti, costantemente minacciati da colate di lava, nubi infuocate o tsunami.

La Victoria si dirige verso Stromboli, il vulcano più attivo delle Isole Eolie, che erutta regolarmente. Uomini e donne vivono sui suoi versanti, costantemente minacciati da colate di lava, nubi infuocate o tsunami.

Per il momento, continuiamo il nostro viaggio, superiamo le luci di Stromboli, dove torneremo in seguito, e arriviamo a Panarea. L’isola è un vulcano attivo e il suo brusio ce lo ricorda: qua e là, in superficie, si formano vortici naturali che emanano un odore di zolfo. Gettiamo l’ancora nelle vicinanze e le nostre prime immersioni sono in acque poco profonde ma acide! Le bolle risalgono in superficie così come la pioggia cade dal cielo. Questa tempesta capovolta è così corrosiva che un tempo i Romani la usavano come stazione di lavaggio delle navi. Ancoravano deliberatamente le navi su queste cortine di bolle, in modo che i gas acidi pulissero gli scafi attaccati dai «parassiti acquatici»: alghe che rallentavano la navigazione e teredini che mangiavano il legno delle tavole. Ancora oggi, riesco a vedere l’effetto di questa acidità sulla biodiversità, dal momento che nelle vicinanze non crescono organismi calcarei, conchiglie o coralli. Un verme marino imprudente ha osato un’avventura suicida avvicinandosi troppo alle bolle e il suo tubo calcareo si sta già dissolvendo lentamente. In altri punti, le praterie di erba di Nettuno hanno foglie sbiancate e bruciate. Solo i batteri anaerobici, avidi di CO2 e materiale sulfureo, sembrano prosperare. Formano una spessa e immacolata copertura feltrosa sulle pareti rocciose, che ondeggia al ritmo della carezza acida dell’oceano. Dopo qualche ora in questa atmosfera pungente, torniamo alla Victoria con le guance e le labbra screpolate. Persino la cromatura degli erogatori sulle mute subacquee si è ossidata.

Questa immersione appena sotto la super- ficie è servita come test per le attrezzature; quindi, proseguiamo senza timore per i materiali. Siamo qui per fare immersioni profonde in un sito straordinario chiamato «La valle dei duecento vulcani», una scoperta di Francesco Italiano durante un’operazione di mappatura. Lungo una leggera depressione, che si estende per 100 metri di lunghezza e 15 di larghezza, oltre dieci anni fa, sullo schermo del suo sonar a scansione laterale, apparvero camini alti e sottili. Una linea situata su un asse stranamente perfetto, tra Panarea e il vulcano Stromboli, la cui cima fumante è visibile in lontananza.

Quando si raggiunge il fondale, il profondimetro indica -78 metri, ma lo scenario evoca quello di una dorsale oceanica situata a -3000 metri sul fondo dell’Atlantico. Questo luogo ostile trasmette una strana impressione, come se il mare qui sotto stesse soffocando per l’eccesso di attività. Espira, borbotta e rigurgita. Gas e acqua calda fuoriescono dalla sommità degli stretti camini formati dalla cristallizzazione del materiale ferroso e ferrico che precipita a contatto con l’acqua fredda e profonda. I colori di questo ambiente evocano quelli di Marte: rosso, ocra e giallo. Mentre un camino prende forma, un altro sembra esaurirsi e un terzo sta già collassando. Qui aleggia un grande senso di precarietà, ma la vita sottomarina è così: fragile e ostinata al tempo stesso. Un piccolo verme piatto, come un’impronta digitale strisciante, scivola in incognito sulle foglie dell’udotea, una piccola alga pioniera che ricopre le pareti rosse dei camini con una piccola foresta verde speranza. Questo verme piatto è alquanto audace e si avventura sulla sommità delle bocche idrotermali che eruttano. È difficile immaginare quale interesse possa avere nel muoversi sugli ossidi di ferro, in un’acqua acida e carica di anidride carbonica.

Qua e là, dal fondale marino intorno all‘isola di Panarea fuoriescono bolle acide. Non c‘è nulla che possa vivere a contatto con queste acque acide e sulfuree. Solo i batteri anaerobici sembrano prosperare, formando un bianco rivestimento feltroso che ondeggia sulle pareti accarezzate dalle bolle.

Qua e là, dal fondale marino intorno all‘isola di Panarea fuoriescono bolle acide. Non c‘è nulla che possa vivere a contatto con queste acque acide e sulfuree. Solo i batteri anaerobici sembrano prosperare, formando un bianco rivestimento feltroso che ondeggia sulle pareti accarezzate dalle bolle.

A Panarea, questi idromassaggi naturali sono estremamente corrosivi. Situati a pochi metri di profondità, sono noti fin dall’antichità. I Romani ancoravano deliberatamente le navi su queste bolle, in modo che
i gas acidi pulissero gli scafi attaccati dai «parassiti acquatici»: una ricca flora di alghe che rallentava la navigazione e tutta una fauna di teredini invertebrati che mangiavano o scavavano il legno delle assi.

A Panarea, questi idromassaggi naturali sono estremamente corrosivi. Situati a pochi metri di profondità, sono noti fin dall’antichità. I Romani ancoravano deliberatamente le navi su queste bolle, in modo che
i gas acidi pulissero gli scafi attaccati dai «parassiti acquatici»: una ricca flora di alghe che rallentava la navigazione e tutta una fauna di teredini invertebrati che mangiavano o scavavano il legno delle assi.

A 80 metri di profondità c’è «La valle dei duecento vulcani», così chiamata dai vulcanologi che hanno individuato questo sito nel 2006, durante una serie di rilievi con ecoscandagli multibeam. Questo luogo è caratterizzato da bocche idrotermali che eruttano acqua bollente, bolle di anidride carbonica e gas sulfurei. Il loro allineamento crea un asse stranamente perfetto tra la vicina Panarea e Stromboli, che è molto più lontana. I ricercatori non ritengono che si tratti di una semplice coincidenza, ma piuttosto di un fenomeno causato dalle emanazioni di una linea di faglia che collega le due isole.

A 80 metri di profondità c’è «La valle dei duecento vulcani», così chiamata dai vulcanologi che hanno individuato questo sito nel 2006, durante una serie di rilievi con ecoscandagli multibeam. Questo luogo è caratterizzato da bocche idrotermali che eruttano acqua bollente, bolle di anidride carbonica e gas sulfurei. Il loro allineamento crea un asse stranamente perfetto tra la vicina Panarea e Stromboli, che è molto più lontana. I ricercatori non ritengono che si tratti di una semplice coincidenza, ma piuttosto di un fenomeno causato dalle emanazioni di una linea di faglia che collega le due isole.

È in questo stesso ambiente inospitale che si aggira il pantopode. Si tratta di un artropode marino, le cui lunghe zampe convergono verso un corpo così piccolo da risultare quasi inesistente. Infatti, è talmente minuscolo che, a causa della mancanza di spazio nell’addome, parte del suo apparato digerente si trova all’interno delle zampe. A un esame più attento, possiamo scorgere i quattro occhi periscopici su una piccola testa, il che conferisce una parvenza di coerenza a questa improbabile creatura.

La contemplazione lascia il posto all’osservazione. Il tempo che ci rimane è interamente dedicato ai protocolli scientifici che Francesco ci ha chiesto di eseguire. Per ogni camino viene inserito un termometro nel piccolo cratere per prelevare un campione di acqua calda e un altro di gas, prima di passare al successivo. Ce ne sono 200, noi ne faremo solo una ventina. Siamo sul fondo già da un’ora e ce ne aspettano altre tre per la decompressione durante la risalita. Anche i nostri campioni devono decomprimersi. Mentre risaliamo, la pressione dell’acqua sulle provette diminuisce. Il gas all’interno è intrappolato ad alta pressione poiché è stato aspirato a quasi 80 metri. Occorre quindi prestare attenzione a decomprimere le provette ogni 10 metri per evitare che il vetro esploda. Analizzando questi campioni, Francesco Italiano dimostrerà presto che c’è un collegamento diretto fra i tre vulcani principali dell’arcipelago. Stromboli, Panarea e l’Etna sembrano dunque essere collegati alla stessa immensa camera magmatica.

A bordo della Victoria, il nostro viaggio continua. Abbiamo seguito la direzione indicata dalla linea della Valle dei duecento vulcani e ora siamo ai piedi dell’immenso Stromboli. Sentiamo il rombo continuo delle esplosioni e vediamo la luce dei getti di lava rossa provenienti dalla cima, alta 900 metri. Sbarchiamo sull’isola, appena sotto il paese, per uno scalo. Dopo il privilegio della navigazione solitaria, arriva quello dell’ascesa: nessuno è salito in vetta da due anni. La nostra guida ci informa con soddisfazione che l’ultima parte, vicina al cratere e costantemente rimodellata dalle eruzioni, non è mai stata percorsa.

I subacquei del team Gombessa, Antonin Guilbert e Thibault Rauby, prelevano campioni di gas e acqua dolce dai camini attivi della Valle dei duecento vulcani. A 80 metri di profondità, i subacquei si concedono solo un‘ora di lavoro sul fondale, poiché dovranno affrontare una risalita di oltre tre ore a causa delle tappe di decompressione obbligatorie. Il colore giallo-rossastro dei camini è dovuto agli ossidi di ferro che si cristallizzano a contatto con l‘acqua fredda delle profondità.

I subacquei del team Gombessa, Antonin Guilbert e Thibault Rauby, prelevano campioni di gas e acqua dolce dai camini attivi della Valle dei duecento vulcani. A 80 metri di profondità, i subacquei si concedono solo un‘ora di lavoro sul fondale, poiché dovranno affrontare una risalita di oltre tre ore a causa delle tappe di decompressione obbligatorie. Il colore giallo-rossastro dei camini è dovuto agli ossidi di ferro che si cristallizzano a contatto con l‘acqua fredda delle profondità.

Questa lumaca di mare con escrescenze rosse, la Diaphorodoris papillata, è una nomade che si aggira nel deserto formatosi dopo una colata lavica o un recente deposito di polvere vulcanica. La roccia nera
è spoglia, ad eccezione di alcune colonie di briozoi, invertebrati pionieri che ricolonizzano la roccia vergine. Questa lumaca sarà il loro primo predatore...

Questa lumaca di mare con escrescenze rosse, la Diaphorodoris papillata, è una nomade che si aggira nel deserto formatosi dopo una colata lavica o un recente deposito di polvere vulcanica. La roccia nera
è spoglia, ad eccezione di alcune colonie di briozoi, invertebrati pionieri che ricolonizzano la roccia vergine. Questa lumaca sarà il loro primo predatore...

Mediterraneo: IL FUOCO SOTTO IL MARE
Mediterraneo: IL FUOCO SOTTO IL MARE
A una profondità di 80 metri, gas e acqua bollente fuoriescono dalla sommità degli stretti camini. Mentre un camino prende forma, un altro sembra esaurirsi e un terzo sta già collassando. Qui aleggia
un grande senso di precarietà, ma la vita sottomarina è così: fragile e ostinata al tempo stesso. In questo luogo si aggirano anche alcuni pantopodi, una specie di pseudo-ragno il cui corpo è talmente stretto che la maggior parte dei suoi organi vitali si trova all’interno delle lunghe zampe. In altri punti, si può osservare un piccolo verme piatto che, come un’impronta digitale strisciante, scivola in incognito sulle foglie dell’udotea, una piccola alga pioniera che ricopre di una piccola foresta verde speranza le pareti rosse dei camini. Questo verme piatto è alquanto audace e si avventura sulla sommità delle bocche idrotermali che eruttano. È difficile immaginare quale interesse possa avere nel muoversi sugli ossidi di ferro, in un’acqua acida e carica di anidride carbonica!

A una profondità di 80 metri, gas e acqua bollente fuoriescono dalla sommità degli stretti camini. Mentre un camino prende forma, un altro sembra esaurirsi e un terzo sta già collassando. Qui aleggia
un grande senso di precarietà, ma la vita sottomarina è così: fragile e ostinata al tempo stesso. In questo luogo si aggirano anche alcuni pantopodi, una specie di pseudo-ragno il cui corpo è talmente stretto che la maggior parte dei suoi organi vitali si trova all’interno delle lunghe zampe. In altri punti, si può osservare un piccolo verme piatto che, come un’impronta digitale strisciante, scivola in incognito sulle foglie dell’udotea, una piccola alga pioniera che ricopre di una piccola foresta verde speranza le pareti rosse dei camini. Questo verme piatto è alquanto audace e si avventura sulla sommità delle bocche idrotermali che eruttano. È difficile immaginare quale interesse possa avere nel muoversi sugli ossidi di ferro, in un’acqua acida e carica di anidride carbonica!

Ammiriamo il panorama dalle alture fumose. Da un lato c’è il paese, adagiato su pendii piuttosto verdi, punteggiati da qualche vite e da ulivi e fichi, e dall’altro il versante devastato. Si tratta della Sciara (dall’arabo «strada del fuoco»), il vasto corridoio nero verticale e completamente minerale solcato dalla lava e da cui fuoriescono senza tregua rocce e cenere. È facile immaginare che anche sott’acqua la colata di materia sia incessante e distrugga tutto ciò che incontra sul suo cammino. Eppure, la vita subacquea è più caparbia e resiliente di quella terrestre. Sono curioso di vedere in che modo l’ecosistema rinasce dopo ogni nuova frana. L’ultima risale a quattro anni fa. In seguito a una scossa, un’enorme porzione di Stromboli si è staccata dall’isola, da un’altitudine di 400 metri, ed è scivolata per 1500 metri fin negli abissi. Roberto si è già immerso lì più di trent’anni fa. Ricorda uno splendido pinnacolo di roccia vulcanica che, come un ago, svettava con i suoi 40 metri di altezza. Questo maestoso complesso, ricoperto di vita marina, sarà ancora lì dopo tutto questo tempo, malgrado le calamità degli anni seguenti?

Le condizioni di immersione sono problematiche e le barche hanno il divieto di rimanere sotto la Sciara. Può verificarsi un’esplosione in qualsiasi momento e le nuvole infuocate che rotolano giù per il pendio come una valanga a 500 gradi bruciano tutto ciò che trovano sul loro cammino. Una barca non è abbastanza veloce per fuggire se si trova sulla «strada del fuoco». Paradossalmente, il pericolo sott’acqua è minore, poiché non c’è il rischio di essere asfissiati dai gas della combustione. Abbiamo quindi deciso di lasciare l’imbarcazione vicino alla costa ma lontano dalla Sciara: ciò significa che ci immergeremo in acqua lontano dal sito di immersione e nuoteremo per circa due chilometri lungo la costa, appena sotto la superficie. Solo quando arriveremo al centro del corridoio della Sciara, non prima, inizieremo la discesa nei fondali. Con i nostri propulsori il percorso verso il punto da cui iniziare la discesa durerà circa 30 o 40 minuti, mentre la discesa a 80 metri durerà poco più.

Non è necessario calcolare la distanza percorsa. Lo scenario è cambiato in modo repentino. Le praterie di cystoseira, cespugli di alghe gialle che pullulano di fauna nascosta, si interrompono improvvisamente. La transizione è brusca e ora ci sono solo sabbia nera e pietre frastagliate. Inizia la discesa. È tutto devastato. Percepisco che Roberto non ha ancora ritrovato i punti di riferimento della sua immersione di trent’anni fa. Non c’è da stupirsi, dal momento che, qui, il fondale si rimodella ad ogni nuova eruzione. Si potrebbe pensare di essere su un pianeta disabitato, se la sagoma di una rana pescatrice non apparisse tra la polvere di antracite sollevata dalle nostre pinne. La natura sottomarina ama il vuoto ancora meno della sua controparte terrestre. Guardando con più attenzione, si può notare che una serie di specie pionieristiche, piccoli briozoi, noti come «animali muschio», hanno iniziato a colonizzare la zona. La vita continua ostinatamente a insediarsi tra due catastrofi. Le gigantesche ascidie, invertebrati dalla forma simile a bottiglie di cristallo, qui sembrano trovare ciò di cui hanno bisogno per prosperare, malgrado la costante minaccia di eruzioni.

La Victoria, il trimarano del team Gombessa, ancorato davanti a Stromboli. Dietro, spicca il confine tra la Sciara (dall’arabo «strada del fuoco») e i verdi pendii ricoperti di vegetazione, risparmiati dalle colate laviche.

La Victoria, il trimarano del team Gombessa, ancorato davanti a Stromboli. Dietro, spicca il confine tra la Sciara (dall’arabo «strada del fuoco») e i verdi pendii ricoperti di vegetazione, risparmiati dalle colate laviche.

la Sciara, su cui spesso si riversano colate di lava e polvere vulcanica, la vita viene regolarmente spazzata via e ogni volta deve ricominciare. Questa stella marina rossa, la Echinaster sepositus, avrà grandi difficoltà a sopravvivere su questo terreno arido e fortemente minerale.

la Sciara, su cui spesso si riversano colate di lava e polvere vulcanica, la vita viene regolarmente spazzata via e ogni volta deve ricominciare. Questa stella marina rossa, la Echinaster sepositus, avrà grandi difficoltà a sopravvivere su questo terreno arido e fortemente minerale.

 

 

Questa immagine mostra un giovane di gattuccio (un piccolo squalo), lo Scyliorhinus stellaris, lungo appena 20 centimetri. Dalla lucentezza della livrea, si può notare che è ricoperto da scaglie placoidi formate da smalto e dentina, come i suoi denti.

Questa immagine mostra un giovane di gattuccio (un piccolo squalo), lo Scyliorhinus stellaris, lungo appena 20 centimetri. Dalla lucentezza della livrea, si può notare che è ricoperto da scaglie placoidi formate da smalto e dentina, come i suoi denti.

È ancora lì, ALTO 40 METRI, INTEGRO E SOLIDO, e ospita una vita sottomarina più rigogliosa proprio poiché è stato risparmiato.

Benché si tratti di un’impresa precaria, un giorno, il loro lavoro costantemente rinnovato coprirà tutte queste basi minerali e monocromatiche di una colorazione organica e variopinta. Poco oltre, una prateria di gorgonie bianche è stata travolta ed è semisepolta dalla sabbia nera di una recente colata lavica. Un giovane esemplare di gattuccio lungo 20 centimetri si aggira nei paraggi. Questo piccolo squalo dal destino incerto è il simbolo perfetto di questo ecosistema rinato.

Dopo alcuni giorni di immersioni e acquisizione di immagini con il sonar a scansione laterale per comprendere meglio la topografia, troviamo finalmente il pinnacolo che Roberto ricordava. La lava pietrificata di cui è formato è così dura da aver resistito alle molteplici eruzioni che hanno devastato l’area circostante. È ancora lì, alto 40 metri, integro e solido, e ospita una vita sottomarina più rigogliosa proprio poiché è stato risparmiato. Eccoci in cima a questa torre di lava. Lascio i miei compagni lì, prendendomi qualche istante per tornare indietro e immortalare questa immensa cattedrale vulcanica nella sua interezza. Tutto intorno, la città degli animali è scomparsa... ma la nostra Signora di Stromboli non è bruciata.

Torniamo alla civiltà. Qualche giorno dopo, la nostra barca è alla periferia di Napoli. Qui, tra il mare e il vulcano, vivono tre milioni di uomini e donne. I napoletani sanno che il disastro di Pompei, avvenuto nel 79 d.C., può ripetersi da un giorno all’altro. Spensierati o incoscienti, accettano la loro situazione di ostaggi del Vesuvio, stretti in una morsa tra acqua e fuoco.

Siamo qui poiché uno dei tanti amici italiani di Roberto sta cercando dei modi per esplorare e studiare un’insolita formazione. «È un buco in fondo al mare», affermano i ricercatori che non sanno molto altro e sono accorsi numerosi per assistere alla nostra immersione. Ognuno spera di poter raccogliere campioni e dati specifici della propria disciplina: pezzi di roccia o sedimenti per i vulcanologi e i geologi; dati sulla temperatura, l’acidità, le correnti e la luminosità per gli oceanologi; ed eventualmente campioni di vita, qualora ve ne fosse, per i biologi.

Sulle pendici sottomarine dello Stromboli, questo enorme pinnacolo di roccia vulcanica situato tra 80 e 20 metri di profondità è il risultato di una grande eruzione di un’era lontana. La lava pietrificata di cui è formato è così dura che ha resistito alle eruzioni del cratere principale a 900 metri di altitudine, che generano periodicamente colate laviche e imponenti frane.

Sulle pendici sottomarine dello Stromboli, questo enorme pinnacolo di roccia vulcanica situato tra 80 e 20 metri di profondità è il risultato di una grande eruzione di un’era lontana. La lava pietrificata di cui è formato è così dura che ha resistito alle eruzioni del cratere principale a 900 metri di altitudine, che generano periodicamente colate laviche e imponenti frane.

Guardando in alto, RIUSCIAMO ANCORA A SCORGERE UN PICCOLO BAGLIORE VERDE: il grande ingresso del pozzo è diventato una minuscola tana di topo.

Dire che questa immersione è invitante sarebbe un’autentica menzogna. Non c’è nulla che faccia venire voglia di immergersi: l’acqua è verde, torbida e fredda. Il fondale è piatto e fangoso, ricoperto dai rifiuti della vicina megalopoli. Siamo nel Golfo di Napoli, a meno di un miglio dalla costa. Non c’è nulla da vedere, ma un senso di curiosità da soddisfare. È davvero possibile che su questo fondale, morbido e piatto per miglia e miglia, si trovi l’ingresso di una grotta verticale e rocciosa di cui nessuno strumento è ancora riuscito a sondare le profondità? I pescatori narrano la leggenda di una «bocca» sul fondo della baia, che inghiotte reti, lenze e nasse. Si dice che ciò che viene gettato in acqua non sempre torna indietro.

Ecco perché siamo in acqua già poche ore dopo il nostro arrivo. Mentre ci avviciniamo al punto indicato, tra la nebbia scura che le nostre lampade cercano invano di bucare, le lenze e i resti delle reti sembrano effettivamente convergere nello stesso punto, verso il quale ci stiamo dirigendo anche noi. Improvvisamente, raggiungiamo il bordo della «bocca». Il fango morbido cede il passo alla roccia nera. Ho la sensazione di trovarmi sull’orlo di un pozzo. L’acqua è troppo torbida per vedere l’intero perimetro, ma dalla curvatura si può immaginare un pozzo di grandi dimensioni, con un diametro probabilmente superiore a 10 metri. Il mio profondimetro indica già 50 metri quando entriamo nel buco nero. È un cilindro quasi perfetto. Scendiamo lentamente e troviamo una prima sorpresa: l’acqua è più limpida qui che all’esterno. A mano a mano che ci inabissiamo a 55, 60, 65 e 70 metri, si potrebbe pensare che questo gigantesco pozzo prima o poi si restringa per poi chiudersi del tutto, e invece accade il contrario. A 75 metri, si apre davanti a noi uno spazio che non è più un pozzo, ma un abisso. È così grande che il fascio di luce delle nostre lampade si perde nel buio prima di riuscire a colpire una parete. La discesa continua a 80, 85, 90, 96 metri... Infine, raggiungiamo il fondo, ricoperto di attrezzature da pesca. Guardando in alto, riusciamo ancora a scorgere un piccolo bagliore verde: il grande ingresso del pozzo è diventato una minuscola tana di topo.

A 96 metri, non ci resta molto tempo. Dopo aver posizionato gli strumenti di misurazione (che rimarranno lì per sei mesi), decidiamo di non risalire verso la piccola luce verde, bensì di cercare di localizzare le pareti dell’abisso. Abbiamo un grande vantaggio: uno dei nostri propulsori è dotato di tecnologia sonar, che compensa la nostra cecità. Lo strumento ci segnala che le pareti si trovano a meno di 25 metri da noi. Siamo quindi al centro di un’enorme camera circolare. L’immagine della grotta inizia a delinearsi nella nostra mente, come un gigantesco decanter dal collo lungo e stretto, che si allarga improvvisamente e senza alcuna transizione in un’ampia coppa. Probabilmente si tratta di un’antica camera magmatica svuotata della lava che, prima o poi, collasserà verso l’interno, generando una sorta di piccolo tsunami che lambirà dolcemente le spiagge di Napoli.

A soli due chilometri dalla costa di Napoli, ai piedi del Vesuvio, si trova quello che i ricercatori hanno soprannominato il «buco nero di Napoli». Il team Gombessa ha effettuato la prima esplorazione di quella che sembra essere stata una camera magmatica. L’ingresso, del diametro di soli 12 metri, si trova su un fondale fangoso a una profondità di 50 metri. Il buco è verticale, come un cilindro perfetto, ma a 75 metri di profondità i subacquei hanno scoperto che il pozzo si allargava a tal punto da non riuscire più a individuarne le pareti. Questa grotta verticale ha la forma di un immenso decanter e i subacquei ne hanno raggiunto la base, a 96 metri di profondità.

A soli due chilometri dalla costa di Napoli, ai piedi del Vesuvio, si trova quello che i ricercatori hanno soprannominato il «buco nero di Napoli». Il team Gombessa ha effettuato la prima esplorazione di quella che sembra essere stata una camera magmatica. L’ingresso, del diametro di soli 12 metri, si trova su un fondale fangoso a una profondità di 50 metri. Il buco è verticale, come un cilindro perfetto, ma a 75 metri di profondità i subacquei hanno scoperto che il pozzo si allargava a tal punto da non riuscire più a individuarne le pareti. Questa grotta verticale ha la forma di un immenso decanter e i subacquei ne hanno raggiunto la base, a 96 metri di profondità.

Le pareti della grotta verticale nel golfo di Napoli, un’antica camera magmatica, sono ricoperte da piccoli invertebrati filtratori e attraversate da alcuni crostacei dalle lunghe chele. Tra queste creature che vivono sul filo del rasoio, c’è una specie rara, descritta solo alla fine del XX secolo in un’altra grotta del Mediterraneo: la spugna carnivora! Anche se il nome potrebbe far rabbrividire, il suo aspetto è meno preoccupante: è bianco immacolato e ha la forma di una spazzola per bottiglie in miniatura. I suoi uncini intrappolano i piccoli crostacei che si avvicinano troppo e, in seguito, i tessuti della spugna crescono intorno alle prede, finché queste ultime non vengono inglobate dal suo tessuto. Non ci sono attacchi fulminei, né combattimenti violenti: si tratta di una semplice e lenta assimilazione di un essere da parte di un altro, nell’arco di pochi giorni. Si è poi scoperto che si trattava di una nuova specie per gli scienziati, attualmente in fase di catalogazione. Non sempre l’esotico e l’ignoto sono lontani, anche se raggiungerli può essere un’ardua impresa!

Le pareti della grotta verticale nel golfo di Napoli, un’antica camera magmatica, sono ricoperte da piccoli invertebrati filtratori e attraversate da alcuni crostacei dalle lunghe chele. Tra queste creature che vivono sul filo del rasoio, c’è una specie rara, descritta solo alla fine del XX secolo in un’altra grotta del Mediterraneo: la spugna carnivora! Anche se il nome potrebbe far rabbrividire, il suo aspetto è meno preoccupante: è bianco immacolato e ha la forma di una spazzola per bottiglie in miniatura. I suoi uncini intrappolano i piccoli crostacei che si avvicinano troppo e, in seguito, i tessuti della spugna crescono intorno alle prede, finché queste ultime non vengono inglobate dal suo tessuto. Non ci sono attacchi fulminei, né combattimenti violenti: si tratta di una semplice e lenta assimilazione di un essere da parte di un altro, nell’arco di pochi giorni. Si è poi scoperto che si trattava di una nuova specie per gli scienziati, attualmente in fase di catalogazione. Non sempre l’esotico e l’ignoto sono lontani, anche se raggiungerli può essere un’ardua impresa!

Nel frattempo, al suo interno, si è creato un ecosistema. Le pareti che abbiamo finalmente raggiunto sono ricoperte da piccoli invertebrati filtratori e attraversate da alcuni crostacei dalle lunghe chele. Tra queste creature che vivono sul filo del rasoio, individuiamo una specie rara, descritta solo alla fine del XX secolo in un’altra grotta del Mediterraneo: la spugna carnivora! Anche se il nome potrebbe far rabbrividire, il suo aspetto è meno preoccupante: è bianco immacolato e ha la forma di una spazzola per bottiglie in miniatura. I suoi uncini intrappolano i piccoli crostacei che si avvicinano troppo e, in seguito, i tessuti della spugna crescono intorno alle prede, finché queste ultime non vengono inglobate dal suo tessuto. Non ci sono attacchi fulminei, né combattimenti violenti: si tratta di una semplice e lenta assimilazione di un essere da parte di un altro, nell’arco di pochi giorni.

Infine, inizia la risalita. Che strana sensazione: non ci siamo immersi in fondo al mare, ma piuttosto sotto il fondo del mare. Ci siamo immersi nel cuore di un’immersione. Un abisso nell’abisso! Sebbene inizialmente non fossimo molto entusiasti, nei giorni seguenti siamo ritornati tre volte con immersioni di oltre quattro ore ciascuna, poiché ci vuole tempo per osservare l’impercettibile predazione della spugna carnivora!

Mediterraneo: IL FUOCO SOTTO IL MARE

Qualche mese dopo, abbiamo appreso dai pochi individui raccolti che si trattava di una specie nuova per gli scienziati, attualmente in fase di catalogazione. Ancora una volta, l’esotico e l’ignoto non erano lontani, e ciò rendeva le scoperte ancora più affascinanti.

Sono passate tre settimane e la Victoria sta già lasciando l’Italia meridionale, diretta a nord-ovest, verso la Corsica. Non ci sono altre imbarcazioni all’orizzonte, a parte qualche peschereccio. Stiamo navigando nel Mediterraneo di un’epoca passata e devo ammettere che è un’esperienza piacevole. Non ricordo di aver mai visto così tanti delfini come quell’anno. Gli amici pescatori mi hanno detto che hanno fatto le migliori pescate degli ultimi decenni. Spesso sentiamo parlare della fragilità della natura, ma questo viaggio mi ha aperto gli occhi sull’atteggiamento superficiale che si cela dietro questa espressione. La natura non è fragile, anzi, è l’esatto contrario: benché attaccata e ferita, disprezzata e mortificata, si aggrappa, resiste e aspetta il suo momento. Tre settimane trascorse ai piedi di vulcani che devastano le civiltà ci ricordano la nostra vulnerabilità. La natura non è fragile, noi sì: scarsi corridori e pessimi nuotatori, destinati a perire se sparissero gli antibiotici, i supermercati e le connessioni ad alta velocità. Basta che la Terra inizi a tossire per ricordarci la nostra irrilevanza. Un piccolo starnuto vulcanico non è nulla per il pianeta, ma è un’apocalisse per noi, con esplosioni, nubi infuocate, tsunami e così via.

Invece di fare videoconferenze o soggiornare in grandi alberghi in giro per il mondo, i vertici del G7 dovrebbero tenersi alle pendici di questi vulcani attivi. Non nella speranza di vedere i nostri arroganti leader scomparire in una colata di lava, ma piuttosto perché possano misurare la propria fragilità, come quella di tutta l’umanità, e relativizzare il proprio potere, miseramente piccolo dinanzi a queste forze colossali. Se la bellezza del mondo non li commuove più, se i suoi orrori non li scandalizzano più, possiamo scommettere che la dimostrazione dell’onnipotenza della natura insegnerà loro la lezione di umiltà e rispetto che troppo spesso manca al genere umano.

Le pendici dello Stromboli sono aspre, forgiate da eruzioni devastanti. Nelle parti più verticali, la vita continua il suo lavoro. Le gorgonie iniziano a colonizzare l’area e i pesci fluttuano attorno, finché una nuova eruzione non tornerà a distruggere tutto.

Le pendici dello Stromboli sono aspre, forgiate da eruzioni devastanti. Nelle parti più verticali, la vita continua il suo lavoro. Le gorgonie iniziano a colonizzare l’area e i pesci fluttuano attorno, finché una nuova eruzione non tornerà a distruggere tutto.

Capitolo 09

Christopher COUTANCEAU

Per la Michelin è uno chef da tre stelle. Christopher Coutanceau preferisce definirsi uno «chef-pescatore».

Autori del capitolo

JEFFREY S. KINGSTON
Christopher COUTANCEAU
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